Gianluca Pulsoni su  “Farsi seme”: https://www.fatamorganaweb.it/farsi-seme-di-anna-marziano


idea, camera,
editing:
AM 

italy/switzerland
10 min. 
2024

16mm, found footage, seeds, rubia roots and hematite ochre.

ce film a été réalisé dans le cadre de la résidence artistique utopiana (genève) 2023-2024. 


RISUONARE, RICICLARE, RIGENERARE

Risalendo l’intreccio d’esperienze che sono andate a informare il film Farsi seme devo ripensare all’autunno del 2016 quando accompagnai il decorso di una complessa operazione chirurgica, dal recupero lento e doloroso. Camminando nei dintorni dell’ospedale, sospesa in una dissonanza tra la mia memoria di figlia e l’eccedere della violenza che incombeva sul corpo di mia madre, ricordo di essermi domandata se l’immagine dei fiori nel suo giardino – immagine della trasmissione della delicatezza e d’intelligente amorevolezza – potesse essere ancora vera e se essa potesse almeno coesistere con la violenza che sembrava sommergerci da ogni parte.

Alla catastrofe intima della malattia e della chirurgia si opponevano gli ostinati sforzi della ripresa, nuove concrezioni di solidarietà e agàpe e – nei momenti migliori – la sensazione di essere “un filo di grano”.[1] Il film nasce da questo sentimento d’interdipendenza e da una risonanza intesa come un senso di apertura e di radicale commistione col resto del vivente, in cui si viene attraversati da una certa levità. Dal congiungimento delle dimensioni distruttive e generative, ne è emersa una sorta di gioia legata alla sperimentazione delle possibilità proprie e altrui (nella vita come nelle immagini), alla ricerca di nuove alleanze, al tentativo di praticare (nella vita e nel cinema) forme brute di bontà.  

All’introduzione, nella quale si scontrano tenerezza e violenza, il film risponde trovando un movimento continuo e relazionale dove panoramiche orizzontali e verticali si susseguono creando un flusso visivo in cui le braccia degli esseri umani sembrano proseguire i rami delle piante e viceversa.
Inizialmente ho fatto dei tentativi con la forma della sovrapposizione delle immagini ma è stata poi la figura della panoramica a chiamare: movimento decisamente fuori moda, la panoramica non è contemplativa come la camera statica, né estatica come la sovrimpressione[2]. Bastava scrollarle di dosso le precedenti funzioni esplicatrici per restituirle tutta la sua esattezza, giacché essa può essere allo stesso tempo movimentoe frugalità. Trascendenza orizzontale relazionale.  In tal modo, una molteplicità di punti di irradiazione delle panoramiche si costituiscono come un invito alla risonanza e come una sorta di antidoto al forte senso dell’assurdo scatenato dall’urto del reale.

Prima di autorizzarmi a filmare, ho cercato nel materiale d’archivio delle sequenze cinematografiche capaci di incarnare queste forme che mi venivano alla mente. Oltre all’esubero della produzione di immagini, mi ponevo il problema concreto dei mezzi tecnici impiegati per realizzarle: le camere analogiche implicano l’utilizzo di sviluppi chimici, le camere digitali non hanno una filiera fair-trade. Pur apprezzando la coerenza con cui filmmaker come Philip Hoffmann e Karel Doing scelgono di utilizzare tecniche esenti dall’uso di processi chimici, non volevo essere costretta a lavorare esclusivamente con delle forme astratte. Ho quindi cercato delle immagini in movimento nel mare delle immagini della mia e dell’altrui memoria; ho acquistato delle pellicole ai mercatini o su internet; ho ricercato negli archivi Gallica online e Memoryscapes (Home movies). Ero aperta ad incontri imprevisti ma persisteva l’intenzione di lavorare con multiple panoramiche che accarezzassero le braccia di alcune*i donatrici*donatori di sangue e i rami degli alberi. Dopo alcuni mesi, non approdando ad alcun risultato con le ricerche, ho deciso di autorizzarmi a realizzare delle riprese, purchè esse venissero compiute in modo limitato, attento e coinciso. Mi incoraggiava un ponderato vitalismo: realizzare delle nuove riprese avrebbe significato riabitare la dimensione esperienziale del gesto cinematografico, dove posizionare la camera è un modo di stare al mondo, di fare corpo con la camera, di andare all’incontro con l’altro. Visto che immaginavo un lavoro breve, con un forte legame alla dimensione corporale, ho deciso di avvalermi della beneamata pellicola 16mm, ponendo però il limite di una shooting ratio massima di 1:2.

Ho così iniziato a filmare con la mia Bolex 16mm, recandomi la domenica mattina in due centri di donazione del sangue, a Preganziol e ad Arcarde in Veneto, grazie all’accoglienza e alla fiducia concessami dall’Avis Provinciale di Treviso, dai suoi volontari, da tutto il personale sanitario e soprattutto dalle donatrici e dai donatori. Volevo filmare questo gesto, solidale e brutale insieme, che mi intimoriva fisicamente per via degli aghi ma al quale sentivo ci si poteva allenare. Era un gesto correlato – e per certi versi anche opposto – alla violenza che mi aveva presa alle spalle cogliendomi impreparata nei mesi e negli anni precedenti. Un esercizio per scongiurare violenze maggiori forse. È possibile preparsi al dolore, sia esso proprio o altrui? Si trattava in ogni caso di un gesto capace di approssimare, evocare e addensare in sè paure e riflessioni che avevo attraversato nel corso nel tempo precedente.

Mi permetto ora di soffermarmi un momento sulla pratica del riuso delle immagini, dato che nel corso della ricerca d’archivio mi sono imbattuta in del materiale interessante: in particolare, ho avuto il piacere di rovistare in una compilazione di film educativi in 16mm proveniente dall’Inghilterra, con soggetti principalmente botanici e faunistici. Si trattava di alcune copie dalle perforazioni molto danneggiate che sono riuscita a visionare in parte con un proiettore e in parte con una moviola. Volendo evitare di sciuparne la potenza con un commento sonoro dalla logica didascalica, la loro prima visione è stata muta. Alcune sequenze erano magnetiche. Un film a colori – Flowers at work (1956) – era stato prodotto dalla Encyclopædia Britannica Films. L’avvento del digitale aveva portato alla chiusura della società e buona parte delle sue produzioni era entrata nel dominio pubblico: da questo film proviene un’immagine centrale di Farsi seme ovvero il gesto d’apertura in timelapse di un giglio. Qualche giorno dopo ho visionato un delicato triacetato di cellulosa in bianco e nero, intitolato Living and non-living things (1948). Nonostante il montaggio delle immagini si adoperasse per tracciare una separazione tra il mondo organico e quello inorganico, c’era qualcosa nell’atmosfera di quelle immagini che mi colpiva e mi zittiva, permettendomi di trovare rifugio nella loro tenerezza asciutta. A questo lavoro devo l’immagine del fagiolo in bianco e nero che appare in Farsi seme, in tutta la sua potenza.

Più Living and non-living things si sforzava di descrivere ciò contraddistingue un essere vivente – ovvero la sua appartenenza a un ciclo vitale che include la nascita, la respirazione, il nutrimento, la crescita, la riproduzione e la morte – più venivo portata oltre al discorso, seguendo le incessanti associazioni tra le varie immagini che mi venivano offerte dal film. Divertendomi al montaggio, ho selezionato e ricomposto le immagini che ricordavo dal momento di quella prima visione: ne è emerso un minuto che sarebbe stato più giusto intitolare “organic-in-organic”. Jean Epstein scriveva: “Le cinéma unit tous les règnes de la nature en un seul, celui de la plus grande vie”. E ancora: “L’une des plus grandes puissances du cinéma est son animisme; à l’écran, il n’y a pas de nature morte. Les objets ont des attitudes, les arbres gesticulent”.[3] Mi permetto questa digressione perché mi sembra possa spiegare perché – nonostante tutta la mia buona volontà e una comprensibile tendenza iconoclasta in reazione alla sovraproduzione e al sovraconsumo di immagini – esista e resista una specificità delle immagini in movimento che va per conto proprio e che non ci deve spaventare, perché ci ricorda che la vita inevitabilmente ci eccede e che alcune immagini ci permettono di procedere sul ciglio del senso e del non senso, persistendo nello sforzo di vivere e di convivere un poco meglio.

Rispetto alla materialità dei suddetti positivi 16mm, mi interessava trasformare le loro immagini senza degradarle nè produrre nuove copie, che avrebbero necessitato a loro volta di ulteriori bagni chimici. Ho così cominciato a sperimentare depositando dei pigmenti e dei semi al di sopra di un vetrino poggiato sul positivo 16mm. Scattavo delle foto in digitale, fotogramma per fotogramma, in modo da tenere una traccia di queste composizioni effimere. In tal modo, ho compreso che lavorando in maniera diretta con semi e terriccio su positivi danneggiati, o semplicemente su un clear leader trasparente, non avrei creato una stampa analogica ma avrei potuto produrre una traccia digitale di una composizione di per sé instabile, appiccicosa, liquida, troppo organica insomma per tenere.[4]Nel film avrei composto queste tracce digitali con le riprese realizzate in 16mm, addivenendo a un’economia espressiva che si svincola sia dalla spettacolarità, sia da un’iconoclastia mortifera che avrebbe oppresso la potenza delle immagini in movimento e la singolarità delle urgenze espressive.

Affianco al movimento continuo e relazionale delle panoramiche, scorreva la violenza della vita che non andava taciuta nè edulcolorata: nel film, le immagini vengono a più riprese aggredite dal colore rosso.
Ho voluto intaccare la pellicola con un colore che traslasse il sangue venoso e quello mestruale attraverso l’uso di due differenti pigmenti naturali, l’ematite e la rubia tinctorum. La prima è un’ocre rossa che ho raccolto in Veneto, camminando nell’area del Montello. Per dare maggiore spazio nel film anche alla dimensione generatrice, ho mescolato sul clear-leader del colore rosso-bruno ottenuto dalle radici della rubia tinctorum, una pianta rampicante che è stata fondamentale nella tintura dall’antichità fino alla rivoluzione industriale e all’invenzione dei colori di sintesi. Ovviamente l’ocra rossa e le radici di garanza non si oppongono tra di loro ma si congiungono nel film, così come le dimensioni generatrici e distruttrici si congiungono nelle nostre esistenze e nella stessa storia del colore rosso.

Durante quelle settimane, con l’aiuto di mia madre, ho raccolto alcuni semi delle piante del suo giardino e alcuni semi trovati nei dintorni della mia abitazione, al parco giochi, lungo gli argini. Si trattava di piante comuni: semi di betulla, semi dell’aglio, semi di saman (albero della pioggia), semi dell’exhocorda racemosa (cespuglio delle perle), semi di muscari, semi di melograno, semi di violaciocche e altri ancora. La potenza del seme mi sembrava congiungere solidarietà e singolarità: non era solo un non-essere-più-fiore. C’era tutta una molteplicità di forme, un rigoglio, una delicatezza intricata delle loro forme.

Farsi seme è un film muto. Muto come i semi che ho iniziato a raccogliere nei luoghi in cui mi capitava di passeggiare o meglio, apparentemente muto, come le piante che ci circondano. Dopo aver sperimentato assiduamente con il fuori sync nei lavori passati – e prima di riprendere a farlo nei lavori futuri – sono addivenuta a realizzare un film nel quale le immagini ci chiamano all’ascolto e dove è richiesto un ascolto al di fuori della pista audio.
Si tratta di una sfida e di un incoraggiamento a fidarci ancora di alcune immagini, a non perdere la possibilità di avvicinarci alla vita attraverso alcune visioni. Il cinema della risonanza non è un cinema non-visivo, è un cinema dove la vista può contribuire ad attivare la nostra sensibilità tutta, purchè si lavori con sobrietà, necessità, ricercando il carattere non spettacolare delle immagini.

Ne sarete scontenti? Chi vuole un cinema spettacolare non ne troverà traccia; chi vede nel film esclusivamente un mezzo di militanza direttamente socio-ecologica potrà trovare irrilevante il mio bisogno espressivo di fronte alla purezza assoluta del processo senza chimica e senza micro-chip; chi predica un cinema non visivo si offenderà di fronte all’inusitata scelta di realizzare un film muto proprio ora che riviste e accademie riscoprono l’universo sonoro del cinema. Fortunatamente, il cinema è uno e molteplice. E forse sarà un buon esercizio anche questo: allenarsi a praticare quest’incessante negoziazione reciproca attraverso un cinema che coniughi il senso critico e la devozione.

Concedetemi un’ultima nota. Siamo eredi delle esperienze partecipative portate avanti da Straub-Huillet, Peter Watkins, Jean Rouch: girare Farsi seme è una regressione modernista rispetto a un film come ad esempio Variazioni ordinarie (2014)? O non sarebbe più giusto dire che l’aspetto collaborativo in entrambi i casi è comunque fondamentale e viene rivelato in modo più o meno esplicito? Esso si estende d’altra parte fino alla relazione con i possibili fruitori, intesi come amici noti e ignoti. Anziché parlare di una pratica partecipativa in senso stretto, bisognerebbe allora porre la questione in termini di relazionalità. Se pensiamo ad esempio al lavoro di Francis Alÿs When fait moves the mountains (2002) è difficile affermare che quel processo artistico comporti una reale condivisione della (supposta) autorialità tra le persone coinvolte. Si tratta però di una storia disseminata e propagata, di bocca in bocca, di gesto in gesto. Si tratta di processi di osmosi tra singolarità porose, fatte da ciò che assorbiamo, rielaboriamo, ricicliamo e rigeneriamo, in modo implicito o esplicito. Anche quando ci autorizziamo a girare in solitaria una natura morta, queste immagini saranno sin dalla loro nascita relazionali giacché la loro concezione è sempre derivata e la loro post-produzione immaginaria avviene sempre e comunque incessantemente.

Lunga vita allora ai flussi visivi-sonori che ci accompagnano, offrendoci lenimento e slancio, purchè essi reinventino ogni volta le proprie micro-politiche della relazione, della produzione e dello sguardo. - AM 2024



[1] Guillevic, Vivere in poesia o l’epopea del reale, Ed. Aracne, Roma 2021.

[2] In Notre musique (2004),  J. L. Godard associa il sacro a ciò che è immobile, descrivendo l’icona come assenza di movimento: “pas de mouvement, pas de profondeur, aucune illusion”. I movimenti della sequenza conclusiva del film coniugano invece il paradiso terrestre al movimento della carrellata che sembra perpetuare il gioco pacifico.

[3]J. Epstein, “Le Cinématographe vu de l’Etna” (1926) in L’essenza del cinema. Scritti sulla settima arte, a cura di V. Pasquali, Ed. Marsilio, Venezia 2002.

[4]Nel “Giardino delle delizie” e in “Mothlight”, Stan Brakhage aveva lavorato con elementi botanici raccolti all’interno di due clear-leader sovrapposti, convertiti in positivi analogici con l’utilizzo di processi chimici convenzionali, in laboratorio. 



































~ farsi seme




Les bras allongés comme des branches. Une aiguille trouve la veine. Le sang est récolté pour autrui. Ce fluide courre d’un être à l’autre, nous montrant notre interdépendance fondamentale dans le geste de la donation. Dans un cours visuel continu, l’usage de la panoramique devient une forme sensible de transcendance immanente. Les traces de sang touchent directement la pellicule cinématographique. Il s’agit de pigments d’hématite - une terre rouge racoltée dans la region de la Vénétie - et des racines de garance moulées. L’hématite ressemble au sang veineux alors que la garance présente une ressemblance avec le sang menstruel. Cette apparente duplicité du sang évoque la puissance à la fois génératrice et destructrice de la vie. Face à l’excessif pouvoir de la vie, nous entr’aider les uns les autres, experimenter avec les alliances, devenir semence. Résonner, récycler, régénérer. - AM 

Arms stretched out like branches. A needle finds the vein: the red fluid runs from one being to another, expressing our fundamental interdependence, through the gesture of blood donation. In a continuous visual flow, the use of camera pannings becomes a sensitive form of relational transcendence, where blood evokes both the generative and the destructive dimensions of life; facing its excessive power, we are left to experiment with alliances, resonating with everything that's alive. - A.M.






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